
Linguaggio e violenza di genere: la narrazione del colpevole nella cultura patriarcale Maria francesca Chiappe, Alessandra Pinto e Claudia Rabellino Becce
Partiamo dalla cronaca e soprattutto dagli insulti sessisti a Giorgia Meloni per affrontare il tema del linguaggio per quanto concerne la violenza di genere: si può contestare un politico ma quando il politico è una donna partono subito le parolacce sessiste. Soprattutto quella parolaccia che inizia con la lettera “T”. Quella parola purtroppo è l’epitteto che viene rivolto alle donne e non si passa mai per la critica sulla professionalità, si arriva direttamente a quel giudizio. Anche nei giorni scorsi hanno riecheggiato le immagini dell’arbitro che ha rifiutato la stretta di mano alla collaboratrice donna. L’arbitro in questione è stato sospeso per una settimana.
Anche questo rientra nel sessismo? Alessandra Pinto, avvocata napoletana: “Si, rientra nel sessismo e nel fatto che purtroppo abbiamo ancora una cultura sessista. Ci sono degli stereotipi che si infiltrano sia nei comportamenti sia nel linguaggio che viene utilizzato anche dagli organi di informazione”.
Maria Francesca Chiappe, giornalista, scrittrice e conduttrice, legge: “Un marito affettuoso. L’ingegnere, un grande lettore, un uomo gentile, un uomo premuroso, una persona mite e tranquilla, un marito affettuoso”. Sono gli aggettivi attribuiti a una persona, un uomo. Cosa avrà mai fatto? Ha vinto il Nobel? No, ha sterminato la famiglia. Claudia Rabellino Becce, avvocata ligure trapiantata in Sardegna, asserisce e commenta: “Come abbiamo detto le parole sono importanti, non sono mai neutre, sono sempre espressione di una cultura, di un atteggiamento culturale. Lo diceva molto bene Michela Murgia quando diceva che il linguaggio è una sovrastruttura culturale che riflette equilibri di potere in cui le donne sono sempre svantaggiate”. Emerge senza ombra di dubbio dalla narrazione della violenza: ci si concentra sul colpevole e allora, nel caso del colpevole, si parla sempre di amore, di eccesso d’amore, di amore malato, di gelosia.
C’è sempre quasi una giustificazione, la violenza viene depotenziata, viene resa quasi normale. “Questo perché c’è questo squilibrio tra la vittima e il colpevole e perché appena ci si rivolge alla vittima, la donna, prima di tutto non viene creduta”- dice Claudia Rabellino Becce. La donna che denuncia una violenza viene prima di tutto giudicata, giudicata nei comportamenti che riguardano la sfera del privato, la sua vita privata. Si guarda se sia una donna gelosa, se sia libera nei comportamenti sessuali e se sia stata, per esempio, ubriaca.
C’è un diverso modo proprio di riferire i fatti. Se si tratta di un femminicidio (lui che uccide lei) ci si concentra sull’assassino e si leggono le frasi che Maria Francesca Chiappe ha letto. Se si tratta di una violenza sessuale anche terribile (pensiamo ai fatti di Palermo, uno stupro di gruppo) ci si concentra sulla vittima per andare a guardare se era sobria, drogata, come era vestita, quanti fidanzati ha avuto, chi erano i suoi amici. In quella che secondo tanti e tante viene definita una cultura patriarcale la figura della donna viene vista, in qualche modo, sempre come colpevole e lo dimostrano frasi come: “E’ stata ammazzata? Se l’è cercata. E’ stata violentata? Se l’è cercata” – dice la Chiappe.
Il delitto di violenza sessuale era un delitto, sino 1996, contro la moralità pubblica e il buon costume, non contro la persona. La nostra società ha un retaggio di natura patriarcale quindi nell’ambito di violenza sessuale ci concentriamo sugli atteggiamenti della vittima. L’avvocata Pinto ha fatto una ricerca ed è andata a ripescare gli articoli di quando c’è stato il famoso massacro del Circeo. Siamo negli anni ’70, prima che la violenza diventasse un delitto contro la persona. Il Messaggero, quando descriveva le donne vittima di violenza le descriveva come “delle donne di periferie con la voglia di uscirne”. E’ il 1975.
Alessandra Pinto pone l’accento una ricerca e invita i radioascoltatori a leggerla o a conoscerne qualche dato: “C’è una ricerca molto interessante che è stata fatta dall’Università della Tuscia che ha preso in considerazione un arco temporale che va dal 2017 al 2019 e hanno esaminato 16.715 articoli di ben 15 testate. E’ venuto fuori che ci sono molti preconcetti che si desumono anche dal linguaggio utilizzato dai media. Un linguaggio che deriva da una cultura sessista. Si tende a mettere in secondo piano i colpevoli e quindi c’è una riduzione della colpa, depotenziamento della giustizia e la vittima assume una caratteristica peculiare. Si fa riferimento all’aspetto fisico della vittima. Si fa riferimento al modus vivendi della vittima. Si scandaglia la vita privata della vittima”. Hanno incrociato i dati con una serie di indagini dell’ISTAT e dall’incrocio emerge che il 24% dei cittadini ritiene che l’abbigliamento possa provocare la violenza sessuale.